CIVITAVECCHIA – È morto il Centro Trasfusionale dell’ospedale San Paolo. La notizia, temuta a dire il vero già dalle prime avvisaglie dei mesi scorsi, trova ora riscontro in un atto concreto, firmato il 20 giugno scorso dal presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti. Ormai è deciso: il nosocomio cittadino perderà una tra le sue strutture più importanti. Sessanta giorni di tempo per attuare quanto disposto dalla Pisana, a cominciare dallo smantellamento del reparto. Una decisione, quella di trasferire in altri centri “le perle” del San Paolo, che di sicuro non migliorerà le cose in città, con una Asl Roma F che, nonostante gli innegabili sforzi del personale dipendente, continua ad arrancare. Ma cosa c’è esattamente dietro la decisione assunta da Zingaretti? E soprattutto, cosa ne pensano i vertici della Asl Roma F e dell’ospedale e cosa hanno fatto nel concreto per evitare la sciagura? Era il 18 aprile 2011 e già l’odore di dismissione per il reparto era forte, a causa della carenza di personale medico, si diceva. Tanto che l’Avis aveva messo prontamente le sue competenze e i suoi volontari a disposizione della Asl. Le polemiche non sono mancate e si sono trascinate, tra incontri e proteste, fino al 12 dicembre 2013, quando la Asl Roma F, parlando del Centro Trasfusionale come di «una struttura ricavata qualche decennio fa in alcuni locali della palazzina direzionale». L’Azienda sanitaria in quel periodo era commissariata e al vertice c’era Salvatore Squarcione. Il 23 aprile 2013 (solo 8 mesi prima), la c’è stato un sopralluogo per verificare i «limiti operativi della struttura», con tanto di nota riepilogativa della Asl: «A seguito del sopralluogo erano intervenute le prescrizioni dettate dalla Regione Lazio, pena la chiusura dello stesso centro per la non rispondenza alle specifiche dettate dall’accordo Stato Regioni del 16 dicembre 2010 recepito dalla Regione Lazio nel maggio 2012. La mancanza dei requisiti minimi strutturali – scriveva ancora la Asl Roma F – riguardava numerose non conformità rilevate in ordine all’ubicazione non accessibile ai disabili, all’angustia dei corridoi nei quali non era possibile far transitare lettighe da utilizzare per eventuali emergenze, alla promiscuità dell’accesso in condivisione con uffici di altre strutture, alla compresenza nel medesimo locale di punto di accoglienza e punto ristoro, alla mancanza di servizi igienici diversificati per operatori e utenti, tanto da far scattare un perentorio ultimato dalla Regione Lazio (sei mesi) entro il quale risolvere la questione pena l’immediata chiusura dell’attività trasfusionale». Il seguito è noto: il direttore sanitario Asl di allora Giuseppe Quintavalle (oggi direttore generale della Roma F, ndr) dispone il trasferimento temporaneo del Centro trasfusionale presso altri locali ricavati nell’ex reparto di rianimazione, adeguatamente ristrutturato. Poi una perizia di variante, deliberata dalla Asl Roma F, per ristrutturare completamente con tanto di finanziamento regionale l’ex rianimazione, così da dare una definitiva nuova casa al Centro trasfusionale. Ma allora qual è il problema? La carenza di personale o la struttura fatiscente? O nessuna dei due aspetti, dato che vede in servizio al reparto sono stati assegnati due medici, un biologo, tre tecnici e tre infermieri? La questione torna alla ribalta il 21 gennaio scorso, con il consigliere regionale Gino De Paolis (Sel) che prima di incontrare il direttore generale della Asl Roma F Giuseppe Quintavalle, dichiara: «Il comprensorio e l’ospedale in particolare non sono nelle condizioni di ricevere un altro contraccolpo negativo. È indispensabile che qualsiasi esigenza di ottimizzazione tenga conto di un aspetto particolare del comprensorio e che riguarda in particolare la presenza del porto, con migliaia di croceristi in transito, e del polo di produzione energetica tra i più grandi d’Italia. Non rinunceremo al sangue come bene comune». E quel giorno si è cominciato a parlare di parametri stringenti, imposti dalla normativa europea. Ora Zingaretti, a capo della maggioranza di cui fa parte proprio De Paolis, semplicemente firma l’atto di morte del reparto, nell’indifferenza collettiva. A Civitavecchia rimarrebbe un semplice punto di raccolta del sangue, con un attrezzato parco auto per le emergenze e qualche tecnico, mentre le attività del centro verrebbero trasferite al San Filippo Neri di Roma. Un qualcosa di impensabile in un territorio così vasto come quello di Civitavecchia, che rimarrebbe nella quotidianità con poche sacche di sangue “O negativo”, mentre l’ospedale San Paolo in caso di emergenza dovrebbe rivolgersi altrove, con le conseguenze che il dilatarsi dei tempi comporterebbe. Cosa dice il direttore della Asl Roma F Quintavalle in tal senso? Come mai la Regione prima concede un finanziamento (soldi pubblici) per adeguare dei locali e poi recide di netto il Centro Trasfusionale? E ancora, Zingaretti avrà mai parlato dell’argomento in maniera chiara e trasparente? Il sindaco Cozzolino, cosa aspetta a dire la sua? Il problema del trasferimento del personale è solo la punta dell’iceberg: con la chiusura del Centro Trasfusionale è in gioco la salute dei cittadini e la credibilità di un territorio incapace di esprimere figure in grado concretamente di difenderlo.


