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    Speciale medicina
    27 Aprile 2021
    necessari diversi approcci a seconda della fase della malattia
    Carcinoma epatocellulare, hackaton Roche per migliorare la qualità della vita

    Sviluppare nuove soluzioni per i pazienti che vivono con carcinoma epatocellulare – una delle prime cause di morti oncologiche al mondo – e i bisogni ancora non soddisfatti nella gestione della patologia, attraverso il coinvolgimento multidisciplinare degli specialisti. Questo l’obiettivo di “Hack for HCC”, l’Hackathon promosso da Roche, in collaborazione con H-Farm, che ha visto la partecipazione di oltre 70 esperti, provenienti dai maggiori centri clinici e di ricerca italiani.

    Il carcinoma epatocellulare – ricorda una nota di Roche – rappresenta una delle patologie oncologiche più aggressive e per il quale sono disponibili limitate opzioni di trattamento. Nel nostro Paese, secondo i dati dell’Associazione italiana registro tumori (Airtum), nel 2020 sono attese circa 13.000 nuove diagnosi di tumore al fegato, di cui 75-85% Hcc, con 7800 decessi. “La gestione multidisciplinare del paziente affetto da epatocarcinoma è fondamentale perché, grazie alle nuove possibilità terapeutiche, si è allungata la durata di malattia rispetto al passato, soprattutto grazie alla diagnosi precoce. Per questi pazienti sono necessari diversi approcci terapeutici a seconda della fase della malattia ed il supporto di professionisti come epatologi, chirurghi, oncologi e radiologi”, afferma Filomena Morisco, professore ordinario in Gastroenterologia e direttore della Scuola di Specializzazione in malattie dell’apparato digerente all’Università di Napoli Federico II.

    “Il progetto “Hack for Hcc” – sottolinea – è nato per ascoltare i medici e potenziare l’approccio multidisciplinare sul territorio nazionale, prezioso per mettere in contatto i professionisti ‘singoli’ stimolando il confronto tra gli specialisti sui vantaggi delle diverse opzioni terapeutiche a disposizione e sul modo corretto di procedere. Una delle sfide dell’Hackathon ha voluto indagare come meglio supportare i team multidisciplinari italiani; i grandi centri infatti possono essere strutturalmente pronti per gestire anche le terapie più innovative, ma spesso manca la condivisione multidisciplinare”.