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    Economia e Lavoro
    27 Marzo 2024
    Salari al palo da trent’anni, il calcolo miope delle imprese

    di Marco Gubetti

     

    Sono passati trentanove anni dal referendum sulla scala mobile e la questione salari resta un problema irrisolto per l’economia italiana. Se oggi il cavallo continua a non bere nonostante un export sempre in buona salute e una situazione generale molto migliorata dopo la picchiata negli anni del Covid, la pressoché totale immobilità dei salari resta invece una perdurante zavorra che si va appesantendo di anno in anno. Un recente studio condotto dall’Inapp (l’Istituto nazionale analisi politiche pubbliche) attesta come tra i Paesi facenti parte dell’Ocse, l’Italia sia quello dove gli stipendi sono cresciuti di meno negli ultimi trent’anni in tutta Europa, e con Europa – si badi bene – non si intende solo la zona Euro o l’Unione europea, ma tutti i paesi abbracciati dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo: in sostanza l’intero Vecchio Continente, dall’Atlantico agli Urali. I numeri pubblicati dal report Inapp sono inequivocabili: dal 1991 e fino al 2022, mentre in tutto il resto dell’area Ocse i salari sono aumentati mediamente di oltre il 32% (crescendo di circa un punto percentuale ogni dodici mesi), in Italia – incredibilmente – sono cresciuti soltanto dell’1% in oltre sei lustri. Il problema è evidente e non più aggirabile. Il governo fa bene a prendere il toro per le corna. In primis sta sollecitando i rinnovi di tutti i contratti collettivi, che in Italia regolano oltre l’85% dei rapporti di lavoro esistenti: tra l’anno scorso e i primi mesi del ’24 più o meno la metà dei lavoratori con contratto collettivo ha avuto questo adeguamento, ma c’è ancora l’altra metà che aspetta. C’è poi il taglio del cuneo fiscale, altro passo compiuto da questo Esecutivo che va senz’altro nella giusta direzione e bisogna augurarsi che possa essere resa una misura strutturale con la prossima legge di bilancio. Ma non siamo ancora al cuore della questione. Tutti gli sforzi, infatti, rischiano di non essere sufficienti se non cambia il modello di sviluppo delle imprese, il cosiddetto modello “profit led”, per cui, giusto una trentina di anni fa, si è deciso che i profitti delle aziende dovessero aumentare sensibilmente e che questo dovesse avvenire a scapito dei salari, che, infatti, o sono rimasti immutati a prescindere dai fatturati, o, addirittura, sono stati ridimensionati, come è accaduto, ad esempio, durante gli anni del Covid. In questo modo non si è permesso al sistema produttivo di generare un congruo dropping, ovvero quello sgocciolamento dei guadagni che è poi il meccanismo che garantisce a un tessuto economico di crescere in maniera armonica. A lungo andare, togliendo così fortemente potere d’acquisto agli italiani, le stesse imprese finiscono per non avere più clienti in grado di comprare merci e servizi che loro stesse producono. Soffocare la domanda interna per troppo tempo non è mai una buona idea e la situazione nella quale si è venuta a trovare la Germania negli ultimi mesi è proprio lì a ricordarcelo. La scala mobile così come era concepita nella Prima Repubblica, con adeguamenti salariali a ogni trimestre, era oggettivamente pericolosa per l’inflazione che poteva causare (e che infatti ha raggiunto anche il 15%), ma una misura per permettere agli stipendi di tornare a crescere occorre cominciare a progettarla. Pensare a un nuovo modello di sviluppo è probabilmente l’unica strada per mettere l’Italia in condizioni di ripartire.