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    Cronaca
    11 Ottobre 2023
    “Ho avuto paura per me e per mio figlio, ma non vedo l’ora di tornare in Israele”

    La tarquiniese Valentina Sapere racconta la sua fuga da Tel Aviv  mentre infuriava l’attacco di Hamas

     

    di Marco Gubetti

     

    TARQUINIA (VT) – L’emozione nella voce è ancora viva. A meno di 48 ore dalla fuga da Israele mentre stava deflagrando l’ennesima guerra in Terra Santa, la tarquiniese Valentina Sapere, raggiunta al telefono da LaCronaca24, racconta della sua avventura con l’incredulità di chi sa di avercela fatta nonostante la assoluta criticità della situazione.

    Signora Sapere, perché si trovava in Israele sabato 7 ottobre?

    “Bruno Mars è il cantante preferito mio e di mio figlio. Così, quando ho saputo delle due date che il cantante americano avrebbe fatto a Tel Aviv, mi sono subito precipitata a prendere i biglietti del concerto del sabato sera e, naturalmente, a prenotare voli e hotel. Israele è una terra che amo particolarmente ed era mia intenzione, concerto a parte, far conoscere a mio figlio Francesco, di 14 anni, la meraviglia di Gerusalemme. Così venerdì sera siamo partiti, soli io e lui, da Fiumicino. Alle 23 circa siamo sbarcati in una Tel Aviv ancora in piena estate con lo shabbat che era appena cominciato: una atmosfera rilassata e festosa con musica e tanta gente per le strade ed happening sulle spiagge. Niente poteva far pensare a quello che sarebbe accaduto di lì a qualche ora”.

    Dove eravate all’alba di sabato, quando è cominciato l’attacco di Hamas a Israele?

    “Eravamo nel nostro Hotel di Tel Aviv, nella zona del porto. Fino alle 6 è andato tutto benissimo. Poi quella prima sirena, alla quale francamente non ho fatto molto caso: è durata poco e ho pensato a un antifurto. Alle 6.30, però, le cose sono cambiate, c’è sta una sirena più forte, poi un’altra e un’altra ancora e dopo qualche secondo si è sentito anche un forte boato, seppur in lontananza: abbiamo scoperto dopo che era un missile scagliato contro Tel Aviv”.

    Siete scappati?

    “Non avremmo potuto neanche se avessimo voluto. Con l’interfono la direzione dell’hotel ci ha avvertito che dovevamo lasciare le camere e portarci in un punto di raccolta, così come in Israele sono purtroppo abituati a fare da sempre in questi casi. Nel punto di raccolta siamo stati dieci minuti, come da indicazioni, e poi siamo tornati in camera. Abbiamo fatto avanti e indietro dal punto di raccolta altre due volte. A metà mattinata qualche israeliano cominciava a dire che questo attacco era diverso da tutti gli altri, che si trattava di una situazione fuori dal normale anche per loro, che pure sono abituati agli attacchi di tipo militare. A quel punto ho cominciato seriamente a preoccuparmi”.

    È subentrata la paura…

    “Sì, e più per mio figlio che per me. Provavo a minimizzare per tranquillizzarlo, ma a 14 anni ormai si rende conto della realtà e anche la lingua inglese la comprende bene. Così, quando la televisione ha spiegato che la situazione era molto più critica di quello che era sembrato all’alba, ho deciso che era il momento di agire: dovevamo andarcene il prima possibile”.

    Un’impresa non facile, visto che ormai la battaglia infuriava…

    “Infatti. Ma a metà mattinata avevo ormai chiaro che restare nell’hotel voleva dire comunque rischiare di essere colpiti e la prospettiva era quella di rimanerci per chissà quanti giorni. Mi sono concentrata sul raggiungere l’aeroporto e nel frattempo fare un biglietto per tornare a casa. Così, dopo aver fatto le valigie e aver chiamato mio marito per chiedergli di aiutarmi a fare i biglietti, sono miracolosamente riuscita a trovare un taxi. È stato sicuramente uno degli ultimi che ha circolato in quel giorno maledetto. Siamo arrivati all’aeroporto di Tel Aviv poco prima delle 15.30 e meno di un’ora dopo è scattato un coprifuoco pressoché totale. Se avessi tergiversato sul da farsi, probabilmente adesso io e mio figlio saremmo ancora lì”.

    In aeroporto che situazione avete trovato?

    “Era strapieno. Centinaia, forse migliaia di persone che avevano tutte la necessità di trovare un posto su un aereo qualsiasi. Non era importante lo scalo di arrivo: l’importante era lasciare Israele. Anche noi abbiamo provato ad acquistare un biglietto per Zurigo, poi un altro per Istanbul, ma niente da fare: man mano che passavano i minuti i voli venivano cancellati, tutti, uno dopo l’altro, e i pochi posti disponibili venivano presi da chi era arrivato in aeroporto prima di noi”.

    Come avete fatto a tornare a Roma?

    “Lavoro da anni nel campo del turismo e dei viaggi e non era la mia prima volta in Israele. Mi sono ricordata che in casi di emergenza, anche estrema, ci sono delle rotte particolari che Israele riserva alla sua compagnia di bandiera: sono più sicure perché, pur allungando la traiettoria, evitano di sorvolare le zone a rischio e i velivoli sono più difficili da intercettare per eventuali nemici. Ho deciso dunque di puntare quindi su un volo dell’El Al, ovunque andasse, e, incredibilmente, siamo riusciti a fare i biglietti per l’ultimo volo diretto a Roma. Dopo quasi otto ore di corse dentro l’aeroporto ‒ con almeno tre allarmi per missili in arrivo e conseguente raduno nel punto di raccolta ‒ ci siamo imbarcati sull’aereo che ci ha riportati a casa. Incredibile”.

    A che ora siete atterrati in Italia?

    “Siamo sbarcati a Fiumicino che erano quasi le 2.30 del mattino. È stata un gioia indescrivibile leggere il cartello ‘Roma’ e poter riabbracciare mio marito che ci aspettava all’aeroporto per riportarci a Tarquinia, a casa”.

    Cosa si porterà dentro di questa esperienza così forte?

    “Conserverò sicuramente il ricordo dei due sentimenti che si sono intrecciati nel corso di tutta quella lunghissima giornata di sabato scorso: da un lato, la sensazione di impotenza di fronte all’enormità di una guerra che si stava scatenando e, dall’altro, il forte senso di responsabilità nei confronti di mio figlio. Lo dovevo difendere a tutti i costi, fisicamente, certo, ma anche moralmente, e così ho cercato di proteggerlo anche dalla paura, dall’orrore che si cominciava a percepire anche se per fortuna eravamo relativamente lontani da Gaza”.

    Dopo quanto è accaduto a lei e a suo figlio, pensa di tornare un giorno in Israele?

    “Ci tornerò sicuramente. Aspetterò che torni la calma: bisognerà lasciar passare un anno, magari due… ma tornerò. Israele è una terra che amo profondamente. E poi devo ancora far vedere Gerusalemme a Francesco… ”.